Ecco la trascrizione e il video dell’intervento di Fabrizio Coccetti al nostro Convegno di Zona che si è svolto il 25 Gennaio 2020 a Ferrara presso la Città del Ragazzo, Opera Don Calabria.
Ringraziamo Ivan Fiorillo per la sbobinatura dell’intervento.
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Intervento di Fabrizio Coccetti
Testo non rivisto dall’autore.
Prima di iniziare l’intervento, vorrei innanzitutto dire due parole. Faccio il Capo Scout da un anno e mezzo circa – un’esperienza molto interessante che vi consiglio, naturalmente! – e tra le varie cose, c’è il fatto che girando si ha l’occasione di cogliere meglio quanto siamo un’associazione che fa veramente un sacco di cose, e che opera in un sacco di territori.
Un giorno in più
E in particolare due parole mi sembra giusto spenderle per quella situazione che sta succedendo in Sicilia adesso, della quale un po’ tutti siamo consapevoli. Ci sono stati vari atti, in cui sedi scout, o beni confiscati alla mafia, o sedi parrocchiali che sono anche in uso agli scout – magari nella stampa è tutto indicato come sedi scout – subiscono degli atti violenti, da parte, pensiamo, delle mafie. E questo naturalmente come associazione ci interroga, noi senza dubbio siamo presenti – al prossimo loro Consiglio regionale ci sarà una parte del Comitato – , penseremo anche ad altre iniziative – un’iniziativa che è già in corso è la possibilità di fare dei bonifici sui social e anche sul sito AGESCI, se andate nelle news è indicato dove è possibile destinare dei soldi, proprio per la ricostruzione delle basi che sono state danneggiate – . E devo dire, solo per raccontarvi un episodio, che io sono stato recentemente, in occasione della commemorazione del 19 luglio per Borsellino in Via D’Amelio – la sera del 18, dall’anno dopo l’evento si fa una veglia scout nella via stessa – , nella base Volpe Astuta, che è proprio uno dei primi beni confiscati alla mafia. E lì c’è un buco nel muro rattoppato, perché nel corso degli anni hanno subito varie intrusioni, e una in particolare, invece di farla dalla porta, è stata fatta in maniera significativa dal muro, e c’è la scritta “Potete romperlo quante volte volete, noi lo ricostruiremo sempre”, una scritta molto bella e toccante, che un po’, peraltro, ci riporta all’esperienza delle Aquile Randagie, di cui avrete visto il film un po’ tutti, in cui si dice “Resisteremo un giorno in più del fascismo”. E quindi diciamo che è un’associazione, la nostra, in cui le sfide sono diverse, però ci chiamano a esporci in un certo modo.
L’ambiente educativo
Detto questo, vengo all’ambiente educativo. Prima di dirvi la cosa più importante, definisco l’ambiente educativo. Son tutte cose note, cercherò solo di mettervi un po’ in evidenza degli aspetti, quindi non conto di dirvi niente di particolarmente illuminante, ma giusto per fare un punto della situazione e far venire alla mente un po’ di cose. Dunque, l’ambiente educativo è un sottoinsieme dell’ambiente reale, è una sua parte – in questo senso, non è completamente virtuale l’ambiente educativo, perché coinvolge i cinque sensi, quindi se uno pensa che può creare delle esperienze educative virtuali, cosa fattibile, in realtà l’ambiente educativo, per come lo definisco io, non lo è, le realtà completamente virtuali io non le definisco “ambiente educativo”-, pensato per favorire l’educazione di specifiche persone. E qui, credo che ci troviamo tutti. Vorrei farvi due esempi di caratteristiche dell’ambiente educativo che sono imprescindibili per noi, per l’Agesci.
Ricucire le fratture
Per esempio, un aspetto è il fatto che l’ambiente educativo permette più facilmente di ricucire le fratture che si creano: voi sapete che i percorsi di crescita dell’educazione che abbiamo noi non sono connotati da quella favoletta che raccontano a qualche campo, secondo cui si cresce e si fa un passetto dopo l’altro, ma in realtà sono fatti da continue fratture e ricomposizioni; l’esperienza di passaggio, per esempio, è il fatto che si ha una frattura con l’esperienza precedente. La continuità è data dalla capacità che c’è nel ricomporre queste fratture che si creano.
I percorsi di crescita sono così: ti lasci un pezzettino indietro, ne prendi uno avanti, ricomponi con rilettura dell’esperienza. Questo è il meccanismo di fondo con cui funziona.
In quest’ottica, il fallimento nell’ambiente educativo è presente, e anche nell’ambiente reale. Ora, nell’ambiente reale può succedere che la persona che fallisce non riesca a ricomporlo, non ha abbastanza elementi che lo aiutano a ricomporre quel fallimento, il quale genera frustrazione, dinamiche di depressione e altro, quindi insomma dinamiche di sfiducia nei confronti delle sue capacità. L’ambiente educativo, quello che costruiamo noi nelle nostre attività, è un ambiente in cui c’è lo spazio per il fallimento, c’è lo spazio per l’errore – questo rientra nell’autonomia, caratteristica imprescindibile – , c’è tutto lo spazio per sbagliare, però poi è un contesto che permette più facilmente la ricomposizione.
Com’è che si aiuta questa ricomposizione? Se lo pensiamo in particolare ai momenti di passaggio, ciò che aiuta la ricomposizione è capire cosa c’è di vero tra la situazione prima e la situazione dopo.
Faccio un esempio: prima c’è il rispetto della Legge in Branca L/C, ma dopo vale ancora. Quindi è vero che è tutto diverso, perché io passo dall’essere in Consiglio degli Anziani il più esperto, al centro delle dinamiche, al diventare l’ultimo arrivato. Da una parte sperimento la dinamica della responsabilità, dall’altra dell’accoglienza. E’ tutto diverso, c’è una frattura in questo passaggio, lascio il branco e il cerchio, incontro la squadriglia. L’ambiente che mi permette di unire questa frattura, di ricomporla facilmente, è quello in cui per esempio il sorriso dei capi che c’è alla chiamata del cerchio è lo stesso che trovo quando vengono chiamate le squadriglie; il più grande che aiuta il più piccolo è un concetto mantenuto. Questo rispecchia i valori della Promessa, il valore della parola data. Allora, il permanere di queste cose di vero sono quelle che creano la continuità all’interno della nostra proposta, e fanno sì che l’ambiente educativo sia coerente, il che è una delle caratteristiche, la coerenza, dell’ambiente educativo.
Voi sapete che l’ambiente reale, quello in cui siamo oggi, è fortemente incoerente. Allora quello che succede è che però se io ho la capacità di vivere delle fratture e ricomporle in un ambiente che mi aiuta e che è coerente, mi strutturo per farlo poi nella vita vera. Cioè è un’utile palestra, perché poi quando mi capita sul serio che trasloco, o mi lascio con la fidanzata, divorziano i miei genitori, succedono delle esperienze di frattura tra il prima e il dopo, io ho questo esercizio di ricomporre queste fratture. Allora l’ambiente educativo diventa non qualcosa di fine a se stesso, ma qualcosa che mi aiuta a maturare, capire delle situazioni, attrezzarmi, per rispondere a quello che poi succede nella realtà dei fatti. E questo è un aspetto fondamentale.
L’ambiente “balena”
Da qui viene anche il titolo che il Comitato ha elaborato, in cui c’è un po’ questa idea: quando Pinocchio sta nel ventre della balena, lì per esempio incontra Geppetto, ricostruisce la sua relazione con lui, che era interrotta da quando era scappato, lì fa quel passo per cui dopo che è successo quello, affronta la vita in un altro modo, quando poi escono dalla balena, elaborano il piano eccetera.
Quell’ambiente lì è un ambiente che ha favorito la ricostruzione di certi valori e di certi elementi, l’ha aiutato a capire che cosa è importante, l’ha aiutato anche a capire il senso della sua vita, cioè che la relazione con Geppetto per esempio è una relazione di valore. Quindi aiuta a capire queste cose che poi vengono messe in pratica anche nell’ambiente reale, il quale è un ambiente più grande.
I riti di passaggio
Il secondo aspetto dell’ambiente educativo, su cui mi vorrei concentrare, proprio perché siamo scout – ce ne sono tanti, però ne ho scelti due che mi sembrano particolarmente significativi, anche in risposta all’ambiente reale di adesso – , riguarda la presenza dei riti di passaggio.
L’ambiente educativo è caratterizzato dal fatto che ci sono i riti di passaggio. In sintesi, e questo è molto importante, i riti di passaggio sono i riti riepilogativi di un percorso di responsabilità. Il rito di passaggio è riepilogativo di un percorso di responsabilità e di autonomia. All’interno di un rito di passaggio ci sono vari aspetti: per esempio c’è il riconoscimento dell’identità.
Io ho in testa, molto vivo, anche proprio se lo penso su di me, il mio passaggio dal reparto al noviziato. Abbiamo detto che c’è un riconoscimento dell’identità e la conferma del traguardo raggiunto. Io ero capo squadriglia e passavo, e in quella cerimonia, in cui era presente la comunità, mi sentivo riconosciuto il fatto che questo percorso l’avevo compiuto, cioè io stavo smettendo qualcosa, ma non era un passaggio di poco valore, era un passaggio di valore, perché eravamo tutti lì, in quadrato, messi bene, sistemati in uniforme. Lo scautismo, si dice, funziona anche se i capi sono un po’ somari – questo tante volte ci salva – , però per esempio l’attenzione di far bene il quadrato, far bene gli urli di squadriglia – quell’urlo lì era l’ultimo urlo di squadriglia che facevo io, era importante! – … Allora, riconoscermi che quel momento lì è importante, perché è la sintesi di quel percorso che io ho fatto fino adesso, aiuta me a dire: – Cavolo, sto facendo un passaggio e mi aiuti a sottolinearlo! –
C’è anche il fatto che stiamo facendo un cambiamento in cui poi niente sarà come prima: cioè, io passo e lo riconosci a me, ma anche la comunità lì sta per cambiare. E me lo ricordo, c’era Samuele e io gli ho dato l’alpenstock, il guidone, oh, era l’alpenstock dei bisonti, cavolo! Avevano anche vinto le gare del campo! E lui aveva voglia di prenderlo. Questi sono i meccanismi che si generano benissimo nell’ambiente educativo, meno bene nella realtà, però anche la realtà li dovrebbe recuperare, laddove è possibile. E io glielo passavo, e non c’era nessuno migliore di lui a cui darlo, perché era il vice, e in questo momento di passaggio, peraltro, c’era sia il mio desiderio di andare avanti, sia anche però, dall’altra parte, la spinta a dire: – Però mo’ tocca a me! – , perché poi lo sappiamo tutti che il maestro è quello che sa tramontare.
A un certo momento, uno deve andarsene – è scritto anche ne ‘Le Storie di Mowgli’, nessuno può sperare di guidare il branco per sempre – , quindi arriva un momento in cui uno deve avere la capacità di dire: – Passo il testimone – , e passare il testimone, soprattutto per noi in Associazione, significa anche essere capaci di far venire agli altri la voglia di fare.
Il ruolo del Capo
Cioè, se è bello, se è desiderabile, se è così, allora uno lo vuole fare. E quindi, questi riti di passaggio sottolineano che io cambio, ma anche la comunità cambia, e tutti quanti ce ne prendiamo insieme la responsabilità.
Questo non va mai banalizzato, perché è triste il ruolo del capo che non sottolinea le sfide, che lascia passare come quasi che sia tutto uguale, tutto tiepido, insapore. Invece, il fatto che uno passa in noviziato è sfidante, per il ragazzo che diventa capo squadriglia non è che non succede niente, no, succede tutto! Però io mi fido che tu ce la farai. Non si minimizza l’esperienza, ma si fa capire che è realmente complicato, e lui è la persona giusta.
Questo è l’atteggiamento da avere all’interno di un ambiente educativo. In questa cosa, ci sono vari aspetti e adesso ve li dico un po’ rapidamente. Per esempio, in questo momento di passaggio che ho ricostruito, il mio, i capi erano senza dubbio utili, perché sono loro che hanno favorito che questo momento venisse fatto, e in un certo modo, però la relazione forte che c’era dentro era tutta di squadriglia, era tutta tra ragazzi. Quello che dobbiamo pensare è che ad esempio, un metodo che mette troppo forte l’accento sul capo, è un metodo che va veramente in linea con la società, non è affatto controcorrente.
In realtà, quando B.-P. dice “il fratello maggiore”, lui ha proprio in testa i meccanismi di verticalità, come quelli della Montessori, cioè tu puoi imparare senza dubbio dal capo, ma il capo è un pochino più distante che non il tuo capo squadriglia, perché il capo squadriglia è esattamente come te, tu diventi lui quando sei vice se hai stima del tuo capo squadriglia, è un passetto che ti manca.
Si parla molto, ed è uno degli altri elementi che devono essere sempre presenti nell’ambiente educativo, del fatto di essere persone autentiche. Una persona autentica ha anche una riga di difetti, proprio perché l’autenticità è data dal fatto che viene dall’imperfezione.
E questi difetti – avere un giorno il muso ad attività, avere sonno, essere stanchi – hanno anche la funzione di avvicinarci ai ragazzi, perché il capo perfetto, se poi diventa il modello irraggiungibile, troppo distante, è inutile anche provarci. Quindi il fatto di favorire per esempio il trapasso nozioni è proprio una sfida della nostra associazione: se voi fate questo esercizio banale, andate su Google e cercate “formazione”, trovate milioni di voci; se invece cercate “trapasso nozioni” trovate pochissimo, ma noi siamo fondati sul trapasso nozioni.
Il trapasso di nozioni
Una delle caratteristiche dell’ambiente educativo è il trapasso nozioni. E la parte del trapasso nozioni è una parte che anche per la nostra società è fondamentale. Se dovessimo dire qual è la sfida innovativa più grossa per la nostra società oggi, questa è il recupero autentico del valore delle tradizioni, che ha un valore per la nostra società straordinario, perché quello che era ovvio, cioè il discorso del trapasso nozioni, la nonna che racconta, e un certo tipo di relazioni sociali, che le famiglie favorivano, adesso se non lo insegui è in discreta crisi.
Però pensate quanto nello scautismo c’è di valore della tradizione, del trapasso, e il fatto di favorire soprattutto la dinamica dei ragazzi che si aiutano tra di loro è un aspetto fondamentale. E sempre pensando al mio passaggio, per me passare il guidone è stato il vero passaggio. Perché il guidone era il simbolo di una serie di esperienze, che se dovessi provare a definirle, non sarei capace, le banalizzerei. Allora, la presenza del simbolismo e il valore del simbolismo, dentro l’ambiente educativo, ha un ruolo fondamentale, e così come nell’ambiente reale c’è una mancanza grave di riti di passaggio, c’è anche una mancanza grave di simbolismo. Mentre per noi, è una parte strutturale del nostro metodo e poi lo implementiamo in tanti modi.
Alce Nero dei Siuox
Adesso vorrei leggervi un pezzo dello stregone Alce Nero dei Sioux, è un po’ maschilista, lo perdonerete, cerchiamo di capirlo, era indiano: – I ragazzi del mio popolo imparavano giovanissimi a essere uomini, e nessuno ce lo insegnava; imparavamo semplicemente imitando quello che vedevamo, e diventavamo guerrieri a un’età in cui adesso i ragazzi sono come ragazze – . Questo credo che lo abbiate colto: lo scautismo ha un che di tribale, se dovessimo dirlo. Questa è una sintesi riconosciuta dell’esperienza delle tribù. Non c’era la scuola dei guerrieri. Guardavi con gli occhi. Voi sapete che noi il primo anno che uno passa in comunità capi lo chiamiamo di tirocinio, abbiamo deciso questo termine, però per esempio nelle botteghe d’arte si fa l’apprendistato. Mio nonno, il mestiere di fabbro, l’ha imparato perché è andato a bottega, e lui con gli occhi rubava il mestiere, per così dire. Era cioè lui che aveva questo desiderio di imparare, quindi mosso dal desiderio imparava e guardava.
Ecco, questo dovrebbe essere un po’ il nostro tirocinio, cioè il fatto che uno ha il desiderio di fare il capo bene, perché vuole cambiare il mondo nel suo quartiere, nella sua parrocchia. Si arrangia, diremmo, cioè mentre c’è l’attività se la impara, poi giustamente c’è il tirocinio, l’associazione ti viene incontro, però in realtà il propulsore sono io che lo voglio fare, quindi se non ho le occasioni me le cerco. Questo è un po’ la base che sta dietro.
Scautismo per ragazzi VS Scautismo per capi
E adesso vi dico la cosa più importante, e la dico indipendentemente dal tema di cui parlo, perché ho pensato che c’è una cosa che voglio dire in questi quattro anni e ovunque vado la dico. La riflessione è la seguente: B.-P. a chi ha scritto ‘Scautismo per ragazzi’? Ai ragazzi. E’ indirizzato proprio al ragazzo. Il ‘Manuale dei lupetti’ a chi l’ha scritto? Ai lupetti. Ora, tutta la manualistica dell’Agesci, a chi è scritta? Ai capi. Però, B.-P. non ha scritto ‘Scautismo per i capi che lo traducono educativamente ai ragazzi’. Ha scritto ‘Scautismo per ragazzi’, perché a lui era molto chiaro che il meccanismo di fondo è quello dell’esperienza, è quello della centralità dell’ambiente educativo. Cioè, il concetto principale è: tu le fai due settimane di campo estivo, in cui ti monti la tenda, magari fai la sopraelevata? Questa è la base. E lì c’è poi anche l’elemento in cui c’è la relazione educativa col fratello maggiore, ma è in quel contesto lì che succede. Lui si rivolge al ragazzo, dice: – Guida da te la tua canoa – . C’è un messaggio di autonomia fortissimo.
Quello che ad esempio io mi chiedo, e forse dobbiamo essere un pochino tutti autori di una qualche rivoluzione culturale, che un po’ alla volta dobbiamo cercare di fare, non è che dietro a questo fatto che i manuali siano tutti scritti per i capi c’è l’idea che c’è per forza bisogno di questa figura del capo? C’è un aspetto pedagogico che forse è diventato eccessivo. E che invece la centralità non va rimessa sull’esperienza?
La centralità dell’esperienza
A supporto di questo, vi leggo che cosa ha scritto Vittorio Ghetti, uno delle Aquile Randagie, fratello di don Andrea, che è detto Baden, nel 1992, già abbastanza anni fa, a mo’ di provocazione: – Ora, deve essere chiaro a tutti i livelli associativi, lo scautismo non è un metodo pedagogico. La sua essenza sta nel fare e nel favorire l’autonoma riflessione su quello che si è fatto. […] Per esempio i picchetti della tenda che non si trovano più perché affidati a qualcuno della squadriglia che non sa più dove sono. – . Nella prima uscita di squadriglia che io ho fatto, arrivammo a piantare la tenda e non avevamo i picchetti. Questo è proprio un ambiente educativo, perché io tuttora, quando vado in campeggio con la famiglia, anche se lo so che i picchetti li ho posati nella tenda – perché lo so! – , però comunque controllo se li ho davvero. Poi lì li facemmo con gli arbusti verdi. Se avessi avuto il capo reparto che ci diceva: – Avete controllato di avere tutto? – e noi avessimo controllato: – Ah, mancano i picchetti, aspetta che li prendo – , avrei imparato di meno. Proprio perché una delle caratteristiche dell’autonomia è che deve essere reale, e l’autonomia reale vuol dire che si sbaglia e che si hanno delle responsabilità, per quanto piccole. Come la responsabilità di vedere che la tenda è a posto, e poi ha sbagliato Luca, ha sbagliato Fabrizio… Fabrizio ha sbagliato, giusto, scusate, poi la gente ti perdona.
Chiedere scusa
Anche adesso che faccio il Capo Scout, chiedo scusa a tutti perché continuamente manco cose, mi dimentico, e la gente mi perdona però, per questo devo dire che ho visto che le persone sono molto comprensive. Però, uno ha la responsabilità e, come è noto, dare delle responsabilità a qualcuno significa dargli del potere, perché se no la responsabilità non è autentica, così come dargli dell’autonomia significa dargli la possibilità di sbagliare con le conseguenze che succederanno, perché se no non è autonomia.
Allora, nell’ambiente reale non sempre questo succede, perché lo vediamo dalle nostre unità, dove abbiamo anche dei ragazzi i cui genitori sono presenti a colmare ogni bisogno anche prima che ci sia il bisogno, e invece nello scautismo abbiamo questa fortuna di avere autonomia e responsabilità che possono essere esercitate in maniera il più possibile autentica.
5 caratteristiche
Per concludere il pensiero, vi vorrei dire cinque caratteristiche degli scout, che l’ambiente educativo aiuta a sviluppare. Queste sono prese dall’Eurojamboree del 2020, e devo dire che secondo me ci hanno preso abbastanza bene, a parte l’ultima che un po’ la cambiamo. Caratteristiche riguardo chi vorremmo che fosse lo scout oggi.
1. Capaci di pensiero critico
Sono in inglese, comunque la prima è: critical thinkers, cioè persone capaci di pensiero critico. Bella l’idea di pensare che uno scout è una persona capace di pensiero critico. Questo da che cosa è favorito? Dal fatto che viviamo esperienze, che abbiamo occasioni per rileggere le esperienze – vivere le esperienze non basta – . Bauman scrive che il fatto di vivere continue esperienze, per cui si va in birreria, si va in discoteca, si va a far qualcosa, si esce, si continua a fare cose, dà un senso di amnesia rispetto ai problemi reali che si hanno, perché si è impegnati a fare fare fare, non ci si ferma mai, perché se lo si fa ci si trova soli, con i problemi, e si ha paura. E questo continuare a fare, Bauman lo definisce “la felicità dell’uomo moderno”, un inganno. Continuo a correre per non fermarmi a pensare. Vivere esperienze continue non è sufficiente. Nello scautismo e nell’ambiente educativo, oltre all’esperienza ci sono i momenti di rilettura dell’esperienza. Noi ne abbiamo tantissimi, non sono solo gli hike, il deserto, ma la route stessa alterna momenti di esperienze e rilettura, come il campo. E’ pieno di momenti anche formali o informali, alcuni poi ce li abbiamo codificati – tutte le verifiche che abbiamo, il consiglio della rupe, il consiglio di squadriglia… – , siamo pieni di momenti di rilettura di quello che si fa. Lo scopo qual è? La ricerca del senso. Quello è il vero obiettivo, cioè per essere persone capaci di pensiero critico non lo si può essere se non si è capito abbastanza della propria vita. Non c’è alternativa. Se si pensa che quello che succede capita e basta, non si ha modo di avere un pensiero critico, di fare una lettura della realtà. Penso all’esempio dello spinello, che è una cosa che capita a moltissimi giovani – magari quando arrivano all’Università – , e che è un’esperienza, potenzialmente comunitaria, lo si condivide, può essere bello… In linea di principio, è un’esperienza così. In quel momento lì, non c’è né la capo fuoco, né il capo clan, né i genitori, si è da soli, quindi è con il proprio bagaglio personale che si deve rileggere quell’esperienza, se se ne è abituati. E il problema vero è che uno poi deve chiedersi: – Ma la mia vita è questa qui o la mia vita sta da un’altra parte? – . L’episodio in sé è difficile da condannare, però ci si deve chiedere: – Questo è quello che voglio fare? L’ho fatto una volta, mi piace ripeterlo, è un’esperienza nella quale la mia vita ce la metto, o la mia vita la voglio usare per fare qualcosa in più? – . Questo è un aspetto fondamentale del passaggio tra ambiente educativo e ambiente reale.
2. Leader VS Boss
Seconda caratteristica: leaders, essere leader. In inglese il verbo lead vuol dire “condurre”. Quando io lavoravo negli Stati Uniti avevo sia il leader che il boss – il boss è quello che comanda, il leader è quello che guida – . Al leader ci andavo dietro perché era bravo, veramente conduceva. Da noi la figura del leader, del capo – noi usiamo la parola capo sia per boss che per leader, ma intendiamo sempre il leader – è quella che riesce a tirare fuori il meglio da un gruppo di persone. Il capo squadriglia non le vince da solo le gare del campo, le vince se ciascuno fa del suo meglio. Lo impariamo da piccoli. Quindi dentro la nostra idea di essere leader, di essere capo, c’è l’idea di valorizzare gli altri. E questo è fondamentale. L’altro aspetto che voi sapete – perché lo vediamo tutti, tutti i giorni – è che di quello che uno dice, non conta quasi niente per un ragazzo. Conta effettivamente quello che uno fa e quello che uno è nella vita di ogni giorno. E’ il valore dell’esempio.
Io per esempio della Branca L/C mi ricordo pochissimo, di quando ero lupetto, ma quando si sono sposati Akela e Kaa, che erano Sandro e Loretta, e noi siamo andati tutti lì ed erano felici, abbiamo lanciato il riso, c’era questa dimensione di partecipare a un momento di gioia profonda di vita reale dei nostri capi, perché il matrimonio è una scelta reale che loro hanno fatto, e poi è nato Dario, e c’era tutto un rapporto autentico con una famiglia, poi io son stato Akela di lui… Quindi, degli intrecci di storie con esempi di vita reale, e quelli sono la vera forza, nostra, parlano alle nostre vite, con i ragazzi. Quello è anche essere leader.
3. Generatori di cambiamento
Terza caratteristica: changemakers, persone capaci di creare cambiamento. E di questo un po’ abbiamo già detto, ma di base c’è questa cosa che è una percezione diffusa – lo vedete anche dai rapporti del Censis, anche dal Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo – , l’idea che il mondo non si cambia, è troppo difficile da cambiare, e allora conviene adattarsi. Ed è pieno di persone che si comportano in questo modo.
Mentre uno degli obiettivi nostri è quello di dare il calcio alla parola “impossibile” e di creare un ambiente educativo che permette di capire che tu invece le cose le puoi cambiare. Chiaramente, si deve partire dal proprio quartiere, dal proprio paese, dalla propria parrocchia, lì è dove si è l’agente di cambiamento. Però, guardate che noi, scout, o siamo agenti di cambiamento, o complessivamente siamo inutili. Qui, alla fine siamo sui fondamentali.
4. Capaci di innovare
Altro punto: innovators, cioè persone capaci di innovare. E qui c’è un po’ il discorso della creatività. La riflessione che voglio fare è che credo che di fondo molto parta dall’idea di arrangiarsi, cioè io credo che uno degli insegnamenti più grandi che io abbia ricevuto dallo scautismo è aver avuto la possibilità di arrangiarmi, di trovarmi di fronte a delle soluzioni in cui me la dovevo cavare. E guardate che questo ci capita da sempre in tutti i ruoli, succede quando si è ragazzi, succede quando fai il capo e hai prenotato la corriera e questa non arriva, e dici: – E adesso chi risolve? Io! – , perché in quel momento lì ci sei solo tu e devi risolvere tu. Ed è uguale adesso che faccio il Capo Scout e quando dico: – Oddio, come si può risolvere questa cosa? – , va be’, è un problema mio, respiro e poi però cerco di risolvere. Quindi, per ognuno nel suo ruolo questa è una situazione che non smette mai. Questa cosa della capacità di arrangiarsi ci permette però anche di portare soluzioni innovatrici.
Altro esempio fondamentale, caratteristica del nostro ambiente educativo, è lo scouting, inteso come osservazione, deduzione e azione, legato all’arrangiarsi, perché quando si ha un problema si osserva, si cerca di capirlo bene, si deduce che cosa si può fare e poi si agisce. C’è questo meccanismo che ci aiuta a cavarcela nelle situazioni.
5. Esperti di relazioni
L’ultima parola di cui vi parlo è la quinta: loro hanno scritto communicators, questi dell’Eurojam, noi diremmo non comunicatori, ma diremmo più esperti di relazioni. Voi ricorderete che all’alba del campo nazionale E/G fu fatto un questionario molto dettagliato, dal quale una delle cose che emerse è che la competenza più forte maturata dagli scout, gli E/G, è quella relazionale. E’ vero, si leggono degli articoli del tipo ‘Perché assumere uno scout al lavoro’, perché lavora in gruppo meglio, ha capacità relazionali eccetera. Quindi, l’ultima riflessione riguarda il come noi sviluppiamo questa qualità nelle relazioni, cioè perché una relazione è una relazione di qualità, come si può definire. Semplicemente, se per esempio io e un’altra persona qui presente ci troviamo per strada domani, ci saluteremo in modo abbastanza cordiale perché ci siamo visti oggi, del tipo: – Come va? – . Però, se adesso io e questa persona dovessimo andar fuori e raccogliere la legna, costruire un altare e piove, perché poi dobbiamo dire Messa, e ci siamo presi l’incarico, lo facciamo insieme… Magari anche tra dieci anni ci incontriamo per strada e ci ricordiamo di quella volta. La realtà è che c’è una correlazione molto profonda tra la qualità delle relazioni che noi abbiamo e la qualità dell’esperienza che noi viviamo.
Se una comunità deve risolvere qualche problema nelle relazioni che ha, si parte per la route, perché se ci si trova attorno a un tavolo per chiacchierare, si chiacchiera dei problemi, mentre lo scautismo entra dai piedi. Quindi, si va in route. Se pensate alla route, quello che succede è che a fine route, capo e ragazzi, e ragazzi e ragazzi, alla fine tutti puzzano uguale. Però, è il fatto di puzzare uguale che qualifica anche il capo nella relazione e che permette al capo, in un momento in cui un ragazzo fa qualcosa di storto, di mettere in crisi la relazione.
Voi sapete che ad esempio oggi, nell’ambiente reale, nella società, nelle famiglie, spesso non si litiga, perché piuttosto ci si sopporta. Litigare è faticosissimo, perché se ci si mette a litigare con qualcuno, poi bisogna gestire tutte le conseguenze. Invece ci si sopporta. E anche nelle comunità capi, quante volte? Perché per litigare, bisogna avere dei rapporti di qualità. Per esempio, io e mia moglie abbiamo delle litigate piuttosto discrete, ma nessuna litigata che noi facciamo per me mina le fondamenta della nostra relazione, perché io percepisco una relazione di qualità tale che posso permettermi il litigio con una certa tranquillità. Cosa non banale, questa.
Le relazioni di qualità, se tu giochi con i ragazzi, con le coccinelle o con i lupetti, e ti rotoli sul prato… Devi rotolare anche tu come si rotolano loro, e il fatto che poi prendi e ti vai a lavare le mani insieme, prima di Messa, quello fa sì che tu sia leader, che tu sia capo, e fa sì che la relazione che si intesse tra te e loro sia una relazione di qualità. In questo per fortuna, tendenzialmente noi riusciamo bene. Però sono aspetti da non sottovalutare. Se si fa riunione di clan in birreria, è comunitario, ma la qualità dell’esperienza è bere birra insieme, che è la stessa che si fa con gli amici di scuola. Chiaramente, se si fa una route in mezzo alle montagne, queste sono tutte esperienze esclusive, le quali fanno sì che si faccia la legna insieme, la si tagli, si accenda il fuoco, tutte cose che sono oggi ancor più straordinarie, tant’è che lo scautismo ha sempre un sacco di domande.
Multi-identità
Ma com’è che l’ambiente reale si infiltra nell’ambiente educativo? Per esempio, a livello di simbolismo o di riti di passaggio, nell’ambiente reale sono cose circa scomparse, e siccome noi viviamo nell’ambiente reale, questo si traduce nel fatto che anche nelle nostre attività rischiamo l’indebolimento di questi strumenti. Ci sono attività in cui l’aspetto simbolico è totalmente tralasciato, oppure i riti sono trascurati. Voi sapete che una volta si parlava dell’identità come del fatto di avere molte maschere, cioè una persona, soprattutto un ragazzo e una ragazza, vivono con una maschera quando sono al catechismo – se ci vanno – , una agli scout, una a scuola, una quando sono in discoteca, una con gli amici, a seconda del ruolo indossano una maschera.
Questa visione è stata ampiamente superata, perché quello di cui si parla oggi invece è la multi-identità. Non sono delle maschere, sono proprio delle identità vere, degli aspetti a volte anche in disaccordo all’interno della stessa persona, vissuti proprio realmente, in maniera profonda. E quello che il ragazzo chiede all’adulto è: – Aiutami a essere regista di queste identità che ho, aiutami a trovare una linea di coerenza – , quindi magari si avranno atteggiamenti diversi a seconda di dove si è, però si cerca una coerenza profonda in se stessi, si cerca di capire quali sono i valori che permangono nei vari contesti in cui comunque ci si deve adattare. Quindi un aspetto è questo, fondamentale, da tenere presente nella nostra attività educativa.
Un altro aspetto è il fatto che anche noi facciamo parte del mondo reale, e che quindi ancora di più siamo chiamati a essere intenzionali se vogliamo che la nostra educazione sia efficace. Cioè, se noi notiamo che c’è una mancanza culturale che ci viene attorno a noi, ecco allora lì è dove dobbiamo essere più intenzionali. Le attività in cui non si mette attenzione nei riti di passaggio, in cui gli aspetti simbolici sono trascurati e non pensati, è perché questa è una tentazione del mondo reale, che non attribuisce nessun valore.
Spiritualità scout
Parliamo per esempio del discorso della spiritualità scout: la spiritualità scout è uno degli elementi costitutivi fortissimo della nostra proposta, proprio fortissimo. La Chiesa ci riconosce un ruolo in questo. Il catechismo, secondo i canoni convenzionali, non ha presa, ha sempre meno persone che ci partecipano, meno catechisti. Invece, la spiritualità scout, che al suo interno può avere gli elementi anche principali del catechismo, quelli che noi adesso nella riflessione che stiamo facendo come associazione chiamiamo “educare alla vita cristiana”, questi aspetti funzionano perché sono dentro la proposta.
Non esiste una route senza un percorso di spiritualità dentro. L’intenzionalità è quella di cercare di farlo in modo che funzioni al meglio, farlo insieme ai ragazzi, dar fiducia al lasciarlo fare. Chiaramente se noi pensiamo a un percorso in Branca E/G dove c’è la proposta fatta con l’Assistente che viene condotta dai capi, non è quello che aveva in testa B.-P. con lo scautismo. Funziona che maggiormente coinvolgo i ragazzi, più sono corresponsabili nel fare la proposta, più ci pensano, e quindi la mia intenzionalità educativa funziona meglio perché li ho coinvolti in un percorso.
Intenzionalità educativa non è fare le cose, in generale è farle fare. Poi c’è la questione della competenza. Questo è un aspetto fondamentale, perché è una delle cose che fa sì che l’ambiente educativo non sia una bolla di sapone, che le esperienze dentro non siano esperienze di plastica, finte. B.-P. aveva in testa il fare buoni cittadini; l’idea era: prendere i ragazzi dalle strade, e poi uno diventerà un buon meccanico, uno diventerà un buon panettiere, uno diventerà un buon autista…
Le specialità nascono con questa idea, cioè che la competenza che si acquisisce negli scout serve nel lavoro vero. Ad esempio, il trascurare la topografia, il trascurare le trasmissioni Morse, questi elementi che sembrerebbero squisitamente tecnici, in realtà ciò è una cartina tornasole del fatto che probabilmente nelle nostre attività non mettiamo l’intenzionalità giusta, perché l’acquisizione di competenze specifiche è quello che poi qualifica un ragazzo rispetto a un altro. Quindi, essere capaci di usare la bussola, essere capaci di usare le cartine, tutte queste competenze, alla fine, fanno la differenza tra il fatto che io faccio gli scout e sono capace anche di quello. Non è solo avere competenze relazionali, che abbiamo visto funzionano. Si tratta anche proprio di acquisire competenze. Lo sappiamo bene ad esempio che si può avere la specialità di giornalista anche facendo un cartellone, però se realmente è una cosa che implica una modifica nella persona, un’acquisizione di competenze reali che poi si possono usare anche a scuola, perché si hanno una tecnica e un approfondimento che effettivamente si usano da altre parti, questo è un aspetto fondamentale.
Falò di Speranza
Per concludere, vorrei parlarvi un po’ di speranza. E’ un periodo, il nostro, in cui non ci sono grossi falò di speranza. Se ci si guarda in giro, non si sa bene neanche dove guardare. E’ un po’ difficile. Se pensiamo ad esempio alle istituzioni, una come il presidente della Repubblica un po’ ci salva, quello è un baluardo in cui ci si può trovare, tutto il resto un po’ scricchiola. Certo, don Luigi Ciotti – abbiamo alcune figure – , papa Francesco, altri, però complessivamente è difficile. E’ chiaro che questo si traduce nel fatto che dobbiamo essere noi focolai di speranza.
Ogni gruppo scout è un po’ un focolaio di speranza nel suo quartiere, nella sua città, nella parrocchia. Ad attività nostra, partecipano un sacco di ragazzi e ragazze che non andrebbero a Messa. Si parla dell’accogliere i ragazzi di religioni diverse, ma pensate a quanti ragazzi noi accogliamo, le cui famiglie non vanno a Messa. L’unica Messa, nemmeno Natale, è quella al campo di reparto estivo, o alle vacanze di branco, perché vengono a prendere i figli. Sono tantissimi.
Questa diventa anche per noi un’occasione di evangelizzare, è un’occasione di essere vicini e raggiungere delle persone che altrimenti la Chiesa non raggiungerebbe, e questo la Chiesa ce lo riconosce. Il ruolo di avvicinarci alle periferie, questo ci è riconosciuto. E’ un ruolo che noi prendiamo con tutta una serie di difficoltà, che poi ci vengono incontro – e abbiamo conoscenza delle situazioni difficili che hanno i giovani nei nostri Gruppi e vivono – , però è un ruolo importante.
Trovare un senso
E vorrei ampliare un po’ la riflessione sul discorso del tempo e del vivere l’esperienza e del trovare un senso, e dire che noi abbiamo anche, all’interno del nostro ambiente educativo, una caratteristica fondamentale. Cioè, mentre c’è una tentazione della società, dell’ambiente reale come lo abbiamo definito e inteso, di vivere il presente, come se contasse solo quello, come fosse un punto, una delle cose invece dell’esperienza scout è che noi il tempo ce lo abbiamo proprio come una linea: c’è il passato, c’è il presente e c’è il futuro. Cos’è il passato? Il passato, per esempio, è la memoria. E allora, banalmente, il totem, l’urlo di squadriglia… Sono stato al novantesimo dello scautismo a Spilimbergo, quando io ho sentito “Bisonti! Carica!”… Ma era il mio! Son passati trent’anni. E’ una storia che si collega. Il totem su cui si fa la Promessa, la fiamma del reparto. Su quel totem ha fatto la Promessa mio figlio un paio di settimane fa, la Promessa di branco, era quello dove l’ha fatta mia moglie quando era lupetta. E’ un intreccio di storie. Uno promettendo entra in una storia che hanno costruito gli altri. Sempre lì a Spilimbergo in piazza, vedo Akela che parla con un bambino e istantaneamente ho pensato che potevo essere sia il bambino, quando ero lupetto, in quel posto lì, proprio lì – e probabilmente è l’esperienza di molti di noi – , sia potevo essere Akela.
Quindi, diciamo questo, che la mia storia diventa la storia degli altri, e in questo c’è un senso di comunità che è allargato, cioè la comunità del branco/cerchio si porta dietro la storia di quelli che c’erano prima. La fiamma di reparto sta a testimoniare che quel reparto lì eredita una vita, è una cosa straordinaria, quindi questo valore della memoria è un valore per noi fondamentale.
E poi c’è la parte del futuro. Dunque, in questa noi cerchiamo di gettare molti semi, di strumenti ce ne abbiamo tanti, in cui uno progetta il futuro, con gli impegni, quello che vuole fare eccetera. Uno dei problemi grossi della società italiana è proprio questa prospettiva di futuro vista tetra, con paura, e la mancanza di desiderio. Il desiderio è il vero motore del cambiamento. Nell’esempio di prima, Samuele aveva desiderio di diventare capo squadriglia, perché era il suo momento, lo voleva fare, l’avrebbe fatto benissimo, di sicuro l’ha fatto benissimo, lo desiderava.
Il desiderio è possibile solo se si ha una visione di futuro molto positiva. E’ chiaro che ad esempio con tutta la nostra parte di progetto, dall’interno del progetto c’è l’aspetto dell’intenzionalità educativa – i nostri progetti educativi hanno quello scopo, di aiutarci ad attuare la nostra intenzionalità educativa – , c’è dentro il desiderio di cambiare il mondo, perché quello è lo scopo. Questo è proprio uno sprone per la società, e allora in questo i nostri progetti educativi, la nostra intenzionalità, sono la traduzione pratica del nostro desiderio di migliorare l’Italia. E su questo dobbiamo cercare di essere contagiosi, cioè dobbiamo essere quei focolai di speranza che ci portiamo dietro.
Dare una Speranza
Parlando con don Luigi Ciotti, che vi citavo prima – fondatore di Libera, del Gruppo Abele… – , raccontava questo episodio: era alla commemorazione della morte di Falcone a Palermo, e sentiva una donna che piangeva ininterrottamente a dirotto – peraltro, su Rai 3 hanno fatto una trasmissione su Luigi Ciotti, se andate su RaiPlay la trovate e racconta anche questo episodio, passa un po’ sottotono però lo trovate – , allora lui le si avvicinò e le chiese che cosa avesse, e questa disse: – Nessuno nomina il nome di mio figlio! – . Perché di solito si dice: – E’ morto il giudice Falcone, la moglie Morvillo e gli agenti della scorta – , ecco però si trattava di suo figlio! Allora io mi sono chiesto cosa avrei fatto io se fossi stato in quel frangente, non lo so, io l’avrei abbracciata per consolarla. A don Luigi Ciotti lì è venuta l’idea della marcia di Libera – quest’anno sarà a Palermo il 21 marzo – . Durante la marcia di Libera – 150.000 persone, magari saranno anche di più – vengono letti ad alta voce tutti i nomi delle persone uccise dalle mafie, perché tutti hanno la stessa dignità di persona, e vengono letti tutti i nomi. Allora, quello che ho pensato è che io l’avrei consolata, don Luigi Ciotti, che è un grande interprete della nostra società, ha fatto di più. Lui ha dato una speranza.
E quindi concludo con l’augurio che anche tutti noi riusciamo ad avere questa capacità, date le situazioni, non solo di consolare o riparare al torto, ma anche di essere veri portatori di speranza!
Fabrizio Coccetti
Testo non rivisto dall’autore.
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