AGESCI - Zona di Ferrara

Ferrara, 26 febbraio 2006



Ai Capi della Zona,

Anche quest’anno eccovi un breve sussidio per il tempo di Quaresima. E’ come al solito uno strumento di approccio al Vangelo domenicale – ma non solo – delle cinque settimane di quaresima; all’indicazione del Vangelo segue un piccolo approfondimento dei significati del testo, seguito a sua volta da una riflessione più a largo raggio sui temi che questo tempo, settimana dopo settimana, ci propone per avvicinarci alla Pasqua.

Il linguaggio e gli argomenti proposti sono per scelta inadatti ad essere immediatamente riproposti sui ragazzi. La spiritualità del Capo, di ogni Capo e la sua mediazione continuano ad essere un passaggio decisivo della nostra proposta educativa. Anche dalle brevi riflessioni proposte i Capi potranno trovare gli elementi, i toni e le parole per far partecipare i loro ragazzi alla vitalità e alla tensione di questo tempo liturgico.

Per qualsiasi ulteriore approfondimento o per l’aiuto alla progettazione di eventuali momenti dedicati ai ragazzi resto a disposizione.

Che questo tempo di Quaresima contribuisca a raddrizzare i nostri sentieri verso la Pasqua del Signore.

Buona strada.

Stefano

Quaresima 2006

La Quaresima

La peculiarità del tempo di Quaresima nell’anno liturgico sta nell’offrire un’esperienza in cui l’incontro, la conoscenza, l’accoglienza di Gesù Cristo rappresentano la meta e insieme la preparazione a vivere l’evento della Pasqua. Si tratta di un itinerario assai ricco del quale vale la pena di sottolineare alcuni passaggi fondamentali.

L’Esodo

E’ l’evento attraverso il quale si può capire la dinamica della Pasqua. E’ la situazione in cui la vocazione di ciascuno alla libertà invita ad uscire dal proprio provvisorio per entrare in una terra che è la sua eredità, è accettare il rischio dell’incontro con Dio. Tutti i percorsi di conversione di fatto hanno al proprio centro una discontinuità. La terra promessa non viene acquisita nel tranquillo divenire della storia, per arrivare alla libertà non è sufficiente lasciar fare al tempo: c’è un momento di rottura, di passaggio dal vecchio al nuovo, una decisione, un taglio con la propria storia passata per entrare in una fase completamente nuova. Ecco perché l’Esodo, ogni esodo è impegnativo.

Il deserto, non a caso, è il tessuto simbolico di tale cammino. Non un luogo idilliaco, non un’occasione di facile mistica, ma, come ogni strada autenticamente vissuta, un momento di prova, di verità con se stessi, con gli altri, con Dio.

Nel deserto dell’esodo, la Parola e l’Eucaristia diventano l’unico cibo in grado di sostenere il cammino. E in questo deserto dalla fatica, dalla paura, dalla disperazione e dalla contraddizione, si passa alla Parola, alla vita e alla verità; è il tempo in cui si coglie l’essenziale di se stessi, delle relazione interpersonali e insieme il nostro vissuto ecclesiale, nella storia in cui siamo stati chiamati ad abitare da discepoli.

I quaranta giorni

La tipologia biblica dei 40 giorni è continuamente presente nel cammino della Quaresima, con i suoi vissuti, simboli e significati:

questo elenco non vuole semplicemente portare o riportare alla luce gli episodi, ma la loro costante, il filo conduttore teologico che corre verso le soluzioni positive che le singole narrazione raggiungono.

Gli atteggiamenti e le scelte della Quaresima:

  1. la preghiera

    E’ la partecipazione alla preghiera di Gesù, con la quale la Chiesa domanda la pazienza, la capacità di ascolto delle Scritture, il compimento della volontà del Padre, la supplica perché il Regno si realizzi.

  2. il digiuno

    Rappresenta il superamento di ogni formalismo. Non si tratta di una prestazione spirituale o igienico-fisica, ma una condizione privilegiata per il superamento dei vizi e del peccato, è la disponibilità a lasciarsi rinnovare.

  3. la carità

    Il vero cammino di perfezione della Quaresima non è un esercizio spirituale privato, la vera ascesi è quella della giustizia e della carità. Non c’è conversione a Dio senza un incontro più nuovo e più vero con il nostro prossimo.

Il questa prospettiva diventano particolarmente illuminanti le indicazioni del Concilio Vaticano II espresse nella "Sacrosantum Concilium" al n. 109: "Il duplice carattere della Quaresima che, soprattutto mediante il ricordo o la preparazione al battesimo e mediante la penitenza, dispone i fedeli alla celebrazione del mistero pasquale con l’ascolto più frequente della Paola di Dio e la preghiera più intensa, sia posto in maggior evidenza tanto nella liturgia, quanto nella catechesi liturgica".

La Quaresima è perciò il tempo che focalizza l’attenzione sulla centralità del mistero pasquale, adempimento e compimento del cammino che la connota.

Fonti:

D. Guglielmo Perelli, La strada del ritorno, 1997

A Catella, R. Fabris, Guidami nelle Tue vie. Edizioni Devoniane, Bologna 1999

I Settimana

Vangelo di Marco (Mc 1,12-15)

Il Vangelo di Marco condensa in poche righe il racconto delle tentazioni di Gesù, collegandolo con quello del battesimo. Lo Spirito che "sospinse Gesù nel deserto" è lo stesso che Gesù vede scendere su di Lui "come una colomba", mentre si sente una voce dal cielo che dice "Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto".

Il deserto nella storia di Israele evoca il tempo delle prove dopo la liberazione dall’Egitto. Nel cammino verso Gerusalemme il tentatore avversario del progetto di Dio prende il volto di Pietro che si oppone alla sua scelta, che rifiuta l’idea di un Messia che va a morire.

Gesù è Figlio e servo fedele a Dio che supera le tentazioni di Satana e inaugura la storia della nuova umanità.

Il quadro delle tentazioni chiude il prologo del Vangelo di Marco. Da qui inizia il dramma di Gesù che si presenta come Colui che proclama il Vangelo. Scompare la figura di Giovanni e tutto si concentra sulla figura di Gesù. Il tempo dell’attesa che contrassegna la storia di Israele è arrivato al compimento. Ora la regalità di Dio promessa dai profeti e anticipata negli eventi biblici irrompe nella storia umana. Gesù con i suoi gesti potenti e con la sua parola autorevole rende presente questa azione sovrana di Dio. Da qui trae forza il suo appello alla conversione che si concretizza in una pronta e ferma adesione al Vangelo di Dio. (A. Catella, R. Fabris).

Per riflettere:

In tutti i cicli liturgici la I domenica di Quaresima ci presenta la narrazione delle tentazioni di Gesù, che per Marco non è un momento, ma una condizione che accompagna Gesù in tutta la sua vita, fino alla morte. L’intera vita di Gesù fu sottoposta a tentazione, da farisei che lo avversavano e deridevano, ma anche dai suoi stessi discepoli, tra i quali lo stesso Pietro. La tentazione appare perciò come un momento fondamentale della rivelazione del Cristo sofferente, dello scandalo dell’incarnazione. Cristo "è stato tentato in tutte le cose, a somiglianza (di noi), senza (commettere il) peccato" (Eb 4,15). Pienamente uomo ha conosciuto nella fragilità e debolezza della carne, la forza di seduzione e la possibilità del male.

Cristo servo, tentato e sofferente, è l’arco dell’alleanza posto da Dio tra il cielo e la terra, memoriale per la Chiesa che vive nel mondo, che è chiamata a rendere ragione del mistero di benedizione che in lei si compie per ogni persona.

Da Noè alla Chiesa, la Parola invita a cogliere questa alleanza in Colui nel quale è stato operato lo shalôm e la riconciliazione. E’ l’indicazione di un progetto di salvezza per tutti noi.

Nonostante tutte le contraddizioni presenti, la Chiesa è chiamata a far memoria dell’arco della croce sulla quale Gesù, l’obbediente che "ha sofferto un volta per sempre per i peccati" (1Pt 3,18) ha steso le braccia per offrire a tutti la riconciliazione, a partire da quella con se stessi.

Vangelo di Marco (Mc 9,2-10)

Nel progetto narrativo di Marco il racconto della trasfigurazione di Gesù è la seconda rivelazione della sua identità filiale, dopo quella del battesimo nel Giordano. Ci sono però tre discepoli come testimoni., gli stessi presenti alla risurrezione della giovane figlia di Giairo, dove l’azione di Gesù che richiama in vita e restituisce ai genitori la figlia morta è segno anticipatore della sua vittoria finale.

Gesù impone il silenzio su quanto è accaduto: i discepoli non devono raccontare a nessuno ciò che avevano visto "se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti.". E’ troppo presto, sarà solo la risurrezione a chiarire chi è Gesù, qualsiasi testimonianza anzitempo non ha la possibilità di far cogliere davvero la sua natura. Ma, anche in questo caso, c’è un nesso profondo tra ciò che i discepoli hanno visto sul monte e ciò che accadrà con la risurrezione del Figlio dell’uomo. La trasfigurazione di Gesù prefigura cioè la piena e finale vittoria sulla morte. Ma prima dovrà compiersi il viaggio verso Gerusalemme, il destino di passione e morte.

La trasfigurazione rivela Cristo "Questi è il mio figlio diletto, ascoltatelo!" . Pietro propone di prolungare la presenza dei due protagonisti della rivelazione biblica accanto a Gesù; l’evangelista offre come attenuante il fatto che Pietro, in questa affermazione senza senso, sia semplicemente interprete dello smarrimento dei discepoli. Essi infatti restano estranei per il momento al progetto di Gesù, come a tutti gli annunci di passione e morte.

Dio rivela ai tre l’identità misteriosa di Gesù: il Figlio amato del Padre prende il posto di tutte le altre figure mediatrici della salvezza, infatti i discepoli guardandosi attorno non vedono più nessuno, se non Gesù.

La trasfigurazione non è solo una parentesi o una sosta nel cammino al seguito di Gesù, ma una risorsa spirituale a cui attingere per guardare avanti e proseguire (A. Catella, R. Fabris).

Per riflettere:

Il testo della trasfigurazione ci tocca da vicino. Con Gesù è arrivato il tempo in cui gli uomini possono essere trasformati. Scopriamo cioè che l’aspirazione innata dell’uomo a superare i propri limiti diventa ora possibile in maniera definitiva.

L’uomo è fatto per la gloria. Cristo gli fa capire che c’è qualcosa in lui che va oltre ciò che è e ciò che fa. Ha la possibilità di partecipare alla vita stessa di Dio, pur nella propria condizione di persona umana. Un particolare significativo del testo è che non si riesce a dare una collocazione precisa dal punto di vista geografico al monte della trasfigurazione. Fa parte infatti della nostra geografia interiore: può essere in qualsiasi luogo in disparte. Che importanza può avere se sia un monte alto o un semplice sgabello? L’importante è che sia il posto di Dio in cui trasferire l’umano. Anche se siamo nel nostro mondo è possibile essere trasferiti in un altro mondo senza perdere il contatto con la realtà abituale. L’esperienza spirituale della trasfigurazione fa scoppiare le solite cose esteriori e dà luogo ad una esplosione interiore, le cui schegge luminose hanno il compito di illuminare il cammino che segue.

Vangelo di Giovanni (Gv 2,13-25)

Sulla pagina biblica del Decalogo, presentata oggi dalla liturgia, si innesta il brano dell’intervento di Gesù nel Tempio di Gerusalemme, tra i "commerci" che erano funzionali e indispensabili alla liturgia (per coloro che dovevano comprare animali per i sacrifici o pagare la tassa annuale al tempio, etc).

Gesù rivendica, come Figlio, di poter intervenire nella casa del Padre suo. E Gesù verrà condannato a morte proprio per salvare dalla distruzione il tempio, come dirà Caifa davanti al sinedrio. Gesù affronterà la morte come Figlio che porta alle estreme conseguenze la sua fedeltà al Padre.

La prospettiva della morte domina la seconda parte del Vangelo. L’Evangelista aggiunge una nota sul "ricordo" dei discepoli di questo avvenimento, una volta risuscitato dai morti. Nel linguaggio di Giovanni "ricordare" vuol dire comprendere e accogliere la parola. Gesù non si fida di coloro che credono in Lui solo sulla base dei "segni", cioè vedendo i gesti prodigiosi di guarigione: solo l’ascolto della Parola e l’azione dello Spirito rendono possibile l’incontro con Gesù, che nella morte rivela, come dice Paolo, la sapienza e la potenza di Dio. (A. Catella, R. Fabris).

Per riflettere:

Ecco allora cosa sono le dieci parole: una carta della libertà per un popolo liberato. In una prospettiva cristiana. In prospettiva cristiana il preambolo al decalogo, presente nella I lettura di oggi, potrebbe essere tradotto così: "Io sono il Signore Cristo Gesù che, sulla croce, ti ha liberato da tutte le tue schiavitù, da tutte le alienazioni".

Ficchiamoci bene in testa che la coperta corta non l’hanno inventata Adamo ed Eva: l’abbiamo inventata e brevettata noi.

Così tentiamo di coprire la parte religiosa, lasciando scoperta la vita. Oppure copriamo affannosamente l’attività, i nostri impegni, il fare, lasciando scoperto l’essere. Copriamo le nostre esigenze individuali, lasciando scoperta la dimensione comunitaria della fede. Copriamo la giustizia e lasciamo scoperta la carità. Copriamo l’ortodossia, lasciando scoperta la coerenza, l’appartenenza a Cristo e ai fratelli.

Con la coperta corta ci abbelliamo di sapienza umana, lasciando fuori la sapienza di Dio, manifestata con la stoltezza della croce, come ci ricorda Paolo nella seconda lettura.

Dovremmo scongiurare il Signore che ci faccia comprendere che non è questione di coperta più o meno corta, perché l’unica misura adatta per noi è il Crocifisso.

Soltanto la croce è in grado di coprirci e scoprirci del tutto.

Vangelo di Giovanni (Gv 3,14-21)

Anche il dialogo notturno con Nicodemo c’entra con l’Alleanza. Al vecchio maestro che chiede come si fa a rinascere per entrare nel Regno di Dio Gesù propone una scelta di fede: il Regno coincide con la vita eterna, "bisogna" che sia innalzato il Figlio dell’uomo. Per far capire cosa vuol dire credere nel Figlio dell’uomo innalzato, l’Evangelista rimanda all’episodio in cui Mosè nel deserto innalza il serpente per salvare gli ebrei morsi dai serpenti velenosi.. Nel cammino del deserto gli ebrei si ribellano a Mosè perché hanno paura di morire di fame e di sete. Il serpente innalzato da Mosè che gli Israeliti devono guardare per proteggersi dai serpenti inviati in mezzo al popolo infedele prefigura il Figlio dell’uomo innalzato sulla croce. La croce diventa cioè fonte di salvezza perché rivela la fedeltà di Dio. Le antitesi tra peccato-morte da una parte e fede-vita dall’altra ci ricordano il peso della partita che si gioca nella storia. Una storia che Cristo è venuto non a giudicare (cioè condannare), ma a salvare. Per questo Giovanni parla di "luce" e "tenebre", indicando le due opzioni fondamentali che l’uomo ha tra le sue possibilità.

Il "credere", per l’autore del IV Vangelo non è una questione psicologica o intellettuale, teorica, ma una piena adesione di tutto l’essere, una fede profonda che nasce dal riconoscere e accogliere l’amore del Padre nel suo Figlio, donato fino alla morte di croce.

Per riflettere:

Dalla seconda lettura di oggi Paolo ci obbliga a correggere parecchie prospettive di fondo della nostra vita di credenti. Potremmo riassumere il tutto con una formula: tutto ci viene donato.

Troppo spesso noi ci atteggiamo a protagonisti, artefici della nostra salvezza. Paolo ci ricorda che la salvezza non è conquista, ma grazia. "Per grazia siete stati salvati". Non ci siamo tirati fuori da noi da una situazione disperata, qualcuno si è chinato verso di noi e ci ha afferrati. Il nostro stesso essere è dono di Dio. Non siamo dei sopravvissuti o degli scampati. Siamo dei "risuscitati". Ci dedichiamo alle opere e spesso noi scordiamo che siamo opera di Dio. Ci incamminiamo baldanzosamente sulla strada della santità e delle varie attività nell’illusione che tutto dipenda da noi. E non andiamo molto lontano, a meno che non riconosciamo che tutto dipende dai doni che riceviamo. Tutto ciò sembrerebbe incoraggiare un atteggiamento di inerzia, di quietismo, di indolenza: "Se Dio fa tutto, non è il caso di impegnarsi troppo…".

Proprio il contrario: quando riconosco i doni di Dio, riconosco necessariamente anche la parte che devo fare io.

In tutto vediamo le opere di Dio e anche le opere che ci attendono.

V Settimana

Vangelo di Giovanni (Gv 12,20-33)

La parola di Gesù che interpreta la sua morte come un evento di salvezza universale conclude il dialogo con la folla di Gerusalemme. Per la prima volta Gesù dice che è arrivato il momento della sua glorificazione e questa è anche la risposta alla richiesta dei greci aderenti all’ebraismo ("…vogliamo vedere Gesù") che potranno effettivamente "vedere" Gesù solo dopo la sua glorificazione mediante la morte di croce, dopo la quale attirerà tutti a sé. La stessa prospettiva è indicata dalla similitudine del grano che viene seminato ("se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo, se invece muore produce molto frutto"). Nel linguaggio di Giovanni il "portare" o "dare" frutto si riferisce alla fecondità della missione, sia di Gesù che dei discepoli.

La parola di Gesù sulla gloria del Figlio dell’uomo , alla quale è associato il discepolo, non elimina l’aspetto scandaloso della sua morte. Gesù la può affrontare con libertà e fiducia grazie alla sua relazione di Figlio che si esprime nella preghiera e nel colloquio con il Padre.

Gesù è stato esaudito, liberato dalla morte, in modo paradossale: egli attraversa la morte dolorosa della croce come Figlio fedele. Per questo Dio lo ha costituito mediatore di salvezza – consacrato sacerdote – per tutti quelli che seguono il suo cammino. Il breve dialogo che segue tra Gesù e la folla sottolinea che l’identità di Gesù, il Figlio innalzato, rimane nascosta ai giudei di Gerusalemme. D’altra parte solo Gesù può affermare che la sua morte coincide con il giudizio vittorioso di Dio sul mondo dell’incredulità e della violenza e su chi ne ha il controllo ("Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori").

Al di là del linguaggio allusivo e simbolico del Vangelo di Giovanni si intuisce che nella morte di Gesù è in gioco il destino dell’essere umano. Ogni uomo è chiamato anche oggi a fare una scelta tra Dio e un sistema mondano chiuso e ripiegato su di sé. (A. Catella, R. Fabris).

Per riflettere:

Cristo indica due sbocchi del suo dramma: la fecondità del sacrificio e la glorificazione.

Il primo aspetto viene sottolineato dalla piccola parabola del chicco di grano: "In verità in verità vi dico: se il chicco caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore produce molto frutto". E’ Lui il seme che è caduto sulla nostra terra arida. Seme destinato a forare la crosta, a morire per germogliare. Nessuna vita è possibile senza frutto e nessun frutto è possibile senza la morte del seme. Noi stessi siamo frutto di quel seme. Infatti la messe che Dio miete con la morte del Figlio è una messe di figli. E anche i frutti che raccogliamo noi sono frutto suo.

L’altro aspetta è quello della glorificazione. Nella prospettiva specifica di Giovanni la glorificazione non è altro che la manifestazione dell’amore, la gloria di amare. Così anche per noi il movimento discendente di assimilazione del seme alla terra diventa movimento ascendente di trasformazione nella gloria.

Certo ci riesce difficile accettare questo paradosso: "Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna". Ossia, è arduo riconoscere che la vita non appartiene a noi soli. Ma anche la Chiesa deve morire a se stessa. Quella primitiva, per passare ai pagani, ha dovuto sia pure a fatica morire alle proprie tradizioni e pratiche giudaizzanti.

Allo stesso modo la Chiesa di oggi non può evitare, se vuole aprirsi agli altri, di vivere questo mistero di morte e risurrezione. Per essa l’esaltazione e la forza di attrazione non potrà certamente essere quella del palcoscenico mondano. L’udienza ai greci e a tutti i lontani può essere concessa unicamente nella spoliazione di tutti gli addobbi fastosi.

Difficile che certi rivestimenti permettano di vedere Gesù Crocifisso, così come richiesto da molti che si avvicinano fiduciosi.